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Abitando da bambino in via delle Cave, e poi in via Genzano, per me i tram erano quelli
della STEFER, specialmente i convogli extraurbani per i Castelli che mi
piacevano particolarmente per la presenza del rimorchio e per l’aspetto quasi
ferroviario. Comunque non mancavano le occasioni per osservare i mezzi ATAC, anche se molto raramente
mi capitava di viaggiarci. Invece mi succedeva spesso di girare per Roma in auto
con mio padre: a quei tempi, in assenza dei divieti odierni, era possibile
raggiungere anche il centro storico, che era un po’ il regno dei filobus. La
rete aerea era una vera ragnatela, con una miriade di scambi, incroci e
sezionatori, e una cosa che mi piaceva moltissimo era cercare di seguire dalla
macchina le aste dei filobus mentre percorrevano i bifilari, sperando di vedere
qualche suggestiva sfiammata quando impegnavano uno scambio. Particolarmente
spettacolare era quando a volte si innescavano degli archi che continuavano a
sfiammare anche dopo che la vettura era transitata, fenomeno affascinante e
misterioso che non ricordo di aver mai più visto su altre reti filoviarie.
Altre occasioni di ammirare i filobus si presentavano quando accompagnavo mia madre a
fare acquisti in una grande profumeria in via Nazionale, percorsa dagli
imponenti “tre assi” che mi colpivano per la loro silenziosità: ricordo che
avvertivo solo una specie di ronzio accompagnato dal fruscio delle gomme sui
sampietrini di porfido.
Per quanto riguarda i tram dell’ATAC non ho molti ricordi relativi agli anni di cui stiamo
parlando, e cioè gli ultimi anni ’50: per esempio non ricordo di aver mai visto
del materiale a due assi, che forse era già impiegato solo per le corse di
rinforzo o comunque su linee che erano al di fuori dei miei itinerari abituali.
Ricordo bene invece le 8000 sul 7 a S. Giovanni, ancora nuovissime ed eleganti
nella loro livrea bicolore verde, come pure le Stanga ferme al capolinea del 16
a piazza Ragusa, capolinea che mi piaceva particolarmente perché i binari
giravano in mezzo al giardino. Piazza Ragusa era anche interessante per la
presenza della rimessa degli autobus, con due strane pompe di carburante allora
già in disuso accanto all’ingresso, dove speravo sempre di riuscire a vedere uno
dei rarissimi autobus “con il cofano”, vale a dire con il motore esterno.
Ricordo poi le MATER a piazza Vittorio e l’anello di piazza Lodi, sul quale però non ricordo
tram.
Qualche anno dopo, cioè nei primi anni ’60, una volta mi accadde di prendere il 10 (nero
o rosso, chissà?) con mia nonna che probabilmente doveva recarsi al Policlinico
per qualche visita: ricordo il tratto in sede propria dove le vetture (MRS
ancora con i sedili di legno e le panche longitudinali nella parte posteriore)
sfioravano quasi il chiosco bar (figuriamoci oggi con tutte le maniacali norme
sulla sicurezza – a quei tempi la gente usava ancora guardare prima di
attraversare!). Ricordo pure una sosta interminabile al piazzale del Verano,
dove evidentemente c’era una sorta di capolinea anche se il 10 era una
circolare.
piazzale del Verano
Qualche anno più tardi, verso il 1964-65, iniziai un ciclo di cure ortodontiche e così
dovetti recarmi spesso, accompagnato da mia madre, da un dentista in via Gallia.
Fatta la prima parte del percorso con il tram della STEFER, se era presto
raggiungevamo via Gallia a piedi magari fermandoci a vedere un pezzo di film al
cinema Tuscolo, di proprietà di uno dei fratelli di nonna, ma se eravamo in
ritardo prendevamo il 18 al capolinea di via Mondovì dove si alternavano sullo
stesso binario le MRS del 9 e del 18. Ben presto però una delle due linee, quasi
certamente il 18 (da recenti indagini dovrebbe essere stato invece il 9; nota
del web Editor), venne sostituita da autobus e vedendo questi ultimi
sul binario del capolinea insieme ai tram, cominciai a intuire che era in atto
una politica di graduale eliminazione dei mezzi su rotaia. Ne parlai con mia
madre, la quale cercò di consolarmi dicendomi che almeno i treni non li
avrebbero tolti. Comunque il capolinea di via Mondovì presentava anche un altro
motivo di interesse: il misterioso doppio binario di via Don Orione che
terminava con uno scambio, per il quale formulai l’ipotesi che un tempo fosse
stato collegato alla linea STEFER in via Appia, non sapendo nemmeno, allora,
cosa fosse un capolinea a binario tronco e non avendo mai visto vetture ATAC
bidirezionali. In effetti ancora oggi ignoro quando venne realizzato l’anello e
soprattutto perché venne lasciato in opera fino all’ultimo anche il precedente
binario tronco, dopo che il materiale a due assi era scomparso da anni, dato che
un eventuale uso come ricovero per le vetture monodirezionali avrebbe comportato
il ricorso a manovre complicate e pericolose.
Ancora nel 1929 l'attuale via Don Orione era denominata via
Mondovì e sul capolinea tronco posto sulla stessa fece servizio, a partire dal
15 giugno di quell'anno, la linea 29 (quartiere Appio-largo Tritone); non si sa quando la via
abbia cambiato nome, ma dal 1° settembre 1931 la linea 16, introdotta con la
riforma del 1930, fa capolinea sull'anello delle vie Mondovì, Stabia e Solunto,
abbandonando quindi il precedente capolinea tronco (nota del Web Editor).
Binari al capolinea di v. Mondovì: imbocco
di v. Solunto (*) e uscita da v. Mondovì (**).
Poi vennero gli anni della scuola media, che dal punto di vista delle esplorazioni cittadine
furono una sorta di black out: a differenza delle elementari, dove frequentavo
il turno pomeridiano, ora andavo a scuola di mattina e avendo buona parte del
pomeriggio impegnata dallo studio non mi capitava più di accompagnare qualche
familiare che aveva da sbrigare delle commissioni.
Ricordo solo, in prima media, il giorno che portarono la classe a fare un esame
schermografico, credo presso l’INAIL, e vidi passare in piazza delle Cinque
Giornate un locomotore ATAC con un carro merci agganciato. Tra l’altro questo
prova che almeno un carro – forse il P 20 tuttora conservato – era ancora
utilizzato almeno fino al 1966.
Quando nel 1968 iniziai a frequentare il liceo, fu l’inizio di una nuova vita: andavo al
“Paolo Sarpi” in via di S. Croce in Gerusalemme, che raggiungevo con il solito
tram della STEFER per il quale avevo un abbonamento per studenti, che anche se
era “valido per i soli giorni di scuola” mi consentiva il pomeriggio di
scorrazzare almeno da Termini a Cinecittà e viceversa, spesso insieme al mio
amico Pino che si interessava un po’ anche lui di tram. Fu allora che venni
preso da una vera passione per i tram, e non mi stancavo mai delle novità
tranviarie che vedevo. In effetti, molte cose erano cambiate rispetto ai miei
ricordi – a quell’età tre anni sembrano una vita – e io mi sentivo come uno che
torna da un lungo soggiorno all’estero: il tram della STEFER non passava più per
S. Giovanni ma era stato deviato per S. Croce sui binari del 9, e anche andando
a scuola potevo fare interessanti osservazioni, come gli impianti di via La
Spezia ancora pressoché intatti (solo l’anello di piazza Lodi era stato
ricoperto di asfalto), con ancora in opera all’intersezione con via Nola quelli
che intuii subito essere stati dei segnali di precedenza. Analogo segnale (disco
rosso bordato di bianco) rimase a lungo sull’anello di piazza dei Re di Roma ad
indicare che un tempo il 9 doveva dare la precedenza ai convogli STEFER. Sempre
da piazza dei Re di Roma si diramava ancora il doppio binario elettrificato di
via Albalonga, mentre all’incrocio con via Taranto si potevano osservare le
vestigia del 16: gli incroci e gli scambi del raccordo di servizio tra via Monza
e via Taranto, oltre ad un alimentatore rimasto in opera fino a pochi anni fa.
Senza considerare la ragnatela di binari – purtroppo in buona parte già inutilizzati –
nella zona della stazione Termini e di S. Maria Maggiore, c’erano poi gli
impianti di piazza S. Croce in Gerusalemme con un tratto di binario percorso
promiscuamente dalle vetture STEFER e dalle Stanga dell’ED, e l’anello di via S.
Grandis sul quale un giorno vidi ricoverata con il pantografo abbassato,
evidentemente a causa di un guasto, una “bolognese” della STEFER (naturalmente
allora ignoravo la provenienza di quei quattro strani tram, mentre conoscevo
l’origine delle sei triestine perché in occasione di un viaggio con i nonni nel
settembre del 1969 avevo visto le loro sorelle nel loro habitat naturale).
Quando poi Pino mi fece notare che sulle “Pagine gialle” esisteva un elenco delle linee di
trasporto pubblico suddivise in tram, filobus e autobus, fui preso dallo stesso
entusiasmo di un archeologo che scopre un’intera città sepolta! Iniziai così ad
esplorare le linee ancora esistenti, che a dire la verità non erano poi più
molte: ED, 5, 7, 11, 12, 12 barrato, 13 e 14 i tram e 43, 44, 44 barrato,
46, 47, 47 e 75 i filobus, e a cercare di ricostruire il percorso di quelle ormai soppresse o
trasformate.
Devo dire che quest’ultima attività era la più affascinante, anche se – condizionato dalla
maggiore familiarità con la rete STEFER – cercavo più o meno coscientemente di
ricostruire una fantomatica “rete dell’età d’oro dei tram” in realtà mai
esistita dal momento che una rete come quella ATAC, anche a voler considerare
solo il periodo post riforma del 1930 (che peraltro allora ignoravo) era stata
(ed è ancora oggi!) un’entità dinamica in continua evoluzione dove spesso le
linee hanno cambiato percorso e gli stessi numeri sono stati attribuiti nel
tempo a linee diverse.
In ogni modo non mi stancavo di fare domande a nonni e genitori, e coglievo ogni
occasione per cercare vestigia tranviarie, allora ancora molto numerose. Ricordo
la prima volta che andai allo stadio Olimpico, usufruendo dell’abbonamento del
padre di Pino che era all’estero, come rimasi colpito dalla sede propria di via
Oslavia – ormai senza rete aerea e utilizzata come parcheggio – e dalla rimessa
di piazza Bainsizza dove si intravedevano ancora i binari sotto un leggero
strato di asfalto. In quell’occasione vidi anche gli impianti di piazza Mancini,
ancora intatti, in seguito completamente demoliti e poi ricostruiti nei primi
anni ’80!
Ben presto fui in grado di ricostruire quasi tutta la rete, diciamo quella pressappoco del
periodo tra il 1955 e il 1960, anche se rimasero a lungo alcuni misteri come
quello di parte del percorso del 3 e dell’8, essendo stata prolungata la linea
dopo la trasformazione in autobus oppure avendo subito importanti cambiamenti di
percorso, o quello del famoso 35 di cui sentivo parlare (ancora fino a pochi
anni fa qualche vecchio romano, volendo dare del matto a qualcuno, usava
dire: "Ma che hai preso il 35?"), che ovviamente non rientrava nei miei schemi
di numerazione.
Altra ricerca interessante era quella relativa ad aspetti particolari e poco diffusi,
come ad esempio i binari di ricovero tronchi non molto usati sulla rete romana:
ricordo quello al capolinea del 7 a piazza Zama o quello al grande capolinea di
S. Giovanni, capolinea perfettamente conservato ma inutilizzabile a causa dei
soliti sensi unici dispensati a piene mani dai tanti geni che negli anni si sono
occupati della viabilità cittadina, e che condannarono a morte tanti tram e
filobus! Un’altra chicca erano gli archetti di ricambio ubicati in punti
strategici della rete: ricordo quelli al Colosseo, al piazzale del Verano, a
largo Preneste e a via Farini, ma con un po’ di attenzione era possibile
scoprire qualche supporto anche dove l’archetto era stato rimosso da tempo.
C’era poi l’affascinante materia degli scambi elettrici che, in mancanza di
fonti (tranne qualche spiegazione un po’ vaga datami da mio padre), dovetti
studiare come autodidatta. Scherzi a parte, il loro funzionamento mi apparve
abbastanza chiaro quando riuscii a vedere aperta una delle cassette con la
scritta ATAC o talvolta ancora ATAG o ATG poste sui pali o sui muri degli
edifici presso ogni scambio; anzi, mi sono sempre chiesto perché ogniqualvolta
uno scambio non veniva più utilizzato ci si affrettasse a troncare il filo
collegato alla slitta, quando sarebbe bastato aprire la cassetta e girare il
coltello per escludere il comando e mettere la slitta stessa in corto circuito
con la linea aerea.
Il capolinea di p. Zama (22 marzo 1940), con pali di
costruzione casareccia. Archetti di ricambio a piazza Zama
Comunque quelli erano anni in cui mi illudevo, anche da quanto si leggeva sulla stampa,
che ci fosse una rivalutazione del tram e che fosse finita l’era delle
soppressioni (poco dopo a Milano apparve il prototipo del jumbo tram). A Roma si
faceva un gran parlare della nuova “linea ad U” o linea 30, e la rete superstite
era oggetto di qualche provvedimento di razionalizzazione, anche se col senno di
poi queste razionalizzazioni, guarda caso, comportavano sempre la perdita di
qualche storico tratto di binario come nel caso del 13 deviato per via Induno
anche nel senso di marcia verso Monteverde, con perdita di tutto il percorso sul
lungotevere, ponte Garibaldi e la prima parte di viale Trastevere, o quello del
7 ripristinato dopo i lavori della metropolitana, passando però per piazza
Vittorio e via dello Statuto, abbandonando così quasi tutta via Merulana!
Purtroppo
non fu così, e in breve, con una scusa o con un’altra, sparirono il 5, il 7 e
l’11 e la stessa circolare ED
con il cambio di numerazione perse un po’ del suo fascino. Il resto, per me, è
storia recente che esula dall’argomento di questo scritto, vorrei solo dire che
anche se qualcosa di buono in seguito si è visto, come le nuove linee 30 (che
peraltro già non esiste più!), 2 e 8 grazie alla quale si è rivisto un capolinea
a binario tronco, siamo arrivati purtroppo ad avere dei tram che oltre a
funzionare poco e male, a costare uno sproposito e ad essere delicatissimi e di
onerosa manutenzione, non sembrano più nemmeno tram ma astronavi su rotaie, e
che almeno per me hanno perduto quasi tutto il loro fascino; e tutto ciò mentre
è stato fatto scempio di vetture moderne e tuttora valide e bellissime,
nonostante i rimaneggiamenti spesso cervellotici subiti, come le 8000!
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